Un confronto con Salvatore Ladiana e la sua Teatroterapia

INTERVISTA: Un confronto con Salvatore Ladiana e la sua Teatroterapia
(a cura di Angela Micheli)

Mi puoi raccontare della tua esperienza di lavoro con il teatro in carcere? Quando e come è iniziata la tua avventura in quest’ambito?

È da più di un decennio che lavoro come teatroterapeuta, conducendo vari laboratori. Negli ultimi cinque anni ho avuto modo di lavorare nella casa di reclusione di Bollate, per la precisione con il Settimo Reparto Protetti. In Europa il carcere di Bollate è tra le realtà più all’avanguardia.

Nel Settimo Reparto Protetti ci sono molte restrizioni, poiché si parla di reati di violenza contro la persona, come violenza sessuale o pedofilia, ma all’interno di questa sezione ci sono anche omosessuali, transessuali, ex collaboratori di giustizia o ex agenti di polizia, quindi è un reparto che viene denominato “protetto”.

Io credo che la nostra professione sia una sorta di missione, di vocazione, non in senso mistico o religioso, ma sicuramente non è per tutti entrare in un contesto di questo tipo e fare questo lavoro. Una volta che sei lì dentro non puoi pensare al reato, ma all’essere umano, che ha sbagliato ma c’è già una sentenza e una pena, il percorso giuridico penale è già in corso. All’interno del nostro setting di lavoro c’è perciò l’abbattimento del giudizio, bisogna entrare lì “resettati” ed è fondamentale questo aspetto, perché se vuoi sapere il reato non riesci più a lavorare in un certo modo. Ciò non vuol dire fare finta di niente, assolvere, ma partire dal presupposto che queste persone sono lì per fare il loro percorso che è già avviato. Io ho iniziato un po’ prima del 2019, il percorso per entrare non è semplice perché la burocrazia è pazzesca, nonostante Bollate sia all’avanguardia rispetto ad altre strutture. Più che il teatro, dico sempre infatti che amo il teatro a tal punto da detestarlo, a me interessava portare un lavoro di introspezione, per cui ho scritto al funzionario pedagogico e ho proposto un progetto pilota per avviare un laboratorio di teatroterapia durato sei mesi, inizialmente non remunerato, con la supervisione di una criminologa, la dottoressa Grazia Arena.

Potresti gentilmente condividere quale metodologia utilizzi, descrivere il tuo metodo di lavoro?

Un elemento che è stato veramente terapeutico è il fatto di aver inserito all’interno del gruppo, come partecipanti, delle collaboratrici che mi hanno seguito per anni e che hanno sposato un certo modo di lavorare. In un contesto come il Settimo Reparto Protetti è importante la presenza femminile, ed è stata la carta vincente in assoluto, anche se ha rappresentato un azzardo per il tipo di reato di quella specifica sezione, ma non ho mai riscontrato alcun problema. Inoltre è stato importante perché le collaboratrici diventavano osservatrici interne, alla fine di ogni seduta io facevo una sorta di verbale in cui descrivevo il tipo di training e le risposte dei partecipanti al lavoro, ciò che succedeva, e ciò che mi sfuggiva lo notavano loro dall’interno, quindi poi integrare le diverse visioni e prospettive è stato importante per la conoscenza e la coesione del gruppo. Parte della metodologia di lavoro riguarda anche la richiesta di un abbigliamento neutro per tutti, vestiti neri, comodi e piedi scalzi. Per partecipare al laboratorio i detenuti fanno la cosiddetta “domandina”. Quando ci sono queste attività non necessariamente è perché i detenuti adorano la teatroterapia, sanno che le attività extra possono influire positivamente sul percorso e sulla relazione finale del magistrato, però se è solamente questo l’obiettivo, le persone vengono una volta e non continuano per tutti i sei mesi. All’inizio sono solitamente numerosi, poi il gruppo si screma. Incredibilmente abbiamo raggiunto però dei numeri molto alti, poiché le persone tra di loro parlano di ciò che fanno, e una delle mie prerogative metodologiche è di lavorare con un gruppo aperto, sempre. Mi è capitato di accettare una persona nuova anche all’ultimo incontro, perché credo nell’importanza della teatroterapia e nel fatto che non chiude mai la porta a nessuno, perché è vero che il conduttore deve essere orecchio, ascoltare tutto e tutti, occhio per osservare tutte le dinamiche, ma deve anche arrivare un certo momento in cui la sua presenza si affievolisce per fare in modo che il gruppo stesso diventi orecchio, ascolto, accoglienza. Di conseguenza, se si lavora con un gruppo chiuso, questo aspetto viene a mancare. Se invece la mia presenza si affievolisce fino a diventare una solida assenza, perché la presenza è il gruppo stesso, allora il gruppo accoglie, è pronto ad includere e inserire persone nuove. Mi piace poi lavorare sentendo il gruppo, in ascolto del processo, non preparo solitamente nulla prima di ogni incontro. C’è tanto lavoro sul corpo, soprattutto nelle prime parti. Lì vivono un’alienazione, spesso gli uomini vanno in palestra per sfogarsi ed occupare il tempo, ma tutto ciò che riguarda il movimento globale viene castrato, quindi lavorare sull’extraquotidiano in un contesto carcerario è fondamentale, perché vivono una quotidianità alienante, e non c’è setting migliore di quello teatrale per fare ciò. Inoltre, non ho mai parlato di reati, ma semmai di errore, perché il reato è stato commesso al di fuori del nostro setting e c’è un processo in corso che non riguarda il mio lavoro con loro. I primi approcci sono quindi quelli di riempimento dello spazio scenico, di provare a guardarsi mantenendo lo sguardo, l’abbiccì che in quel luogo non si verifica mai. Ad ogni termine di seduta io chiedo, una volta in cella, di scrivere liberamente un feedback, quello che è successo, quello che si è provato, e di consegnarmelo la settimana successiva. Questo è importante perché si entra nel vivo del lavoro introspettivo, si notano i progressi, c’è gente che raccontava che finalmente era riuscita a sbloccarsi e salutare una determinata persona all’interno del reparto e altri piccoli grandi traguardi di questo tipo. La parte legata alla verbalizzazione è quindi la parte finale rispetto al linguaggio del corpo, alla relazione, allo sguardo, alla consapevolezza della maschera naturale. Non ho portato transizioni o spettacoli, nella prima esperienza laboratoriale avevamo creato quindici minuti di transizione per i compagni, perché loro non possono avere contatti con l’esterno. Le battute riguardavano quanto emerso dai mesi di lavoro ma era soprattutto lavoro corporeo. La cosa per me più importante che ho letto nei feedback, che mi ha dato grande gioia, è il fatto che molti si sono scoperti, hanno scoperto di avere delle qualità che ignoravano completamente, e una persona scrisse di sentire di arrivare alla sera in cella molto stanco, di una stanchezza però rigenerante, che fa stare bene. Si arriva infatti spossati quando si lavora in un certo modo nel setting, c’è un grosso dispendio energetico, che è però rigenerante. Spesso apro ogni incontro attraverso dei feedback a freddo rispetto a ciò che è successo la settimana precedente, chiedendo anche della loro quotidianità durante la settimana. Bisogna stare attenti a mantenere un certo equilibrio, perché alcune persone legano di più tra loro, altre vanno meno d’accordo, quindi il conduttore deve essere orecchio, padre ma al momento stesso anche riuscire a spegnere eventuali momenti di tensione, per cui è importante essere riconosciuti nel proprio ruolo, che non significa fare il “capobranco”, ma riuscire a tenere il gruppo quando rischia di sfaldarsi o dividersi. La gente deve riuscire a fidarsi prima di affidarsi, quindi anche riuscire a sedare un attrito è importantissimo. Nel corso delle sedute c’erano persone che mi abbracciavano e piangevano, si affidavano e si fidavano.

Quali sono le maggiori difficoltà che hai vissuto nella tua esperienza?

Con la polizia penitenziaria ho avuto difficoltà solo nella parte inziale, in particolare il primo giorno, in cui arrivai convinto di iniziare e invece la domanda “ma lei chi è?” mi ha scioccato. Poi questa cosa è stata superata, attraverso la mediazione e la collaborazione. Non ho mai avuto grandi difficoltà con i ragazzi, il gruppo è sempre stato eterogeneo e paradossalmente i lavori di introspezione trovano terreno fertile in un contesto di questo tipo. È essenziale la formazione per lavorare in un contesto di questo tipo, anche chi collabora con me ha una formazione di stampo educativo oltre che attoriale, quindi è importante avere una certa predisposizione, opposta alle idee dell’opinione pubblica rispetto alle persone detenute, tanti pensano ancora che sia giusto rinchiuderle e buttare via la chiave. A Bollate, inoltre, nessun altro fa teatroterapia. Con la compagnia escono per fare spettacoli, sono andati anche al Piccolo di Milano, hanno messo in scena grandi lavori, ma con persone che possono uscire, nel Settimo Reparto Protetti le restrizioni sono molto forti. Le difficoltà quindi sono maggiormente inerenti al contesto che al lavoro di per sé, perché questo mi ha sempre dato una grandissima soddisfazione.

Quali sono, invece, le cose più belle che porti nel cuore?

Da questo lavoro mi porto la relazione con loro, le lettere che mi hanno spedito e il fatto che arrivò una petizione da parte loro in cui raccolsero una marea di firme affinché si potesse protrarre il laboratorio di teatroterapia, quando è stato bloccato nel 2020. Oltre ad essere bello, è giusto che la nostra professione sia riconosciuta e sia considerato quanto lavoro c’è dietro, perché spesso viene confusa come attività di volontariato, come un hobby per riempire il tempo.

È anche un lavoro in cui si assorbono molte cose, quando torni a casa sei provato, il dispendio di energie è molto alto: la malinconia, le amarezze, gli sfoghi di rabbia di diciotto persone che lì accogli è importante che vengano smaltite poi, una volta fuori dal cancello, senza farsi coinvolgere troppo. È importante accogliere le persone, farsi carico dei vissuti e custodirli, perché magari essi riguardano la parte più intima dei partecipanti, che si mettono a nudo con fiducia, ma poi deve scivolare via tutto questo carico, affinchè si possa ritornare la settimana successiva ricaricati. Sarebbe un errore rimanere ancorati lì, anche se è a volte inevitabile perché siamo esseri umani, però il coinvolgimento affettivo deve essere contestualizzato. Sarebbe opportuno anche affiancare un lavoro di psicoterapia individuale per mantenere un equilibrio che è fondamentale. Al tempo stesso essermi sentito conduttore, ma anche fratello, padre e altro all’interno del setting è stato uno degli aspetti che mi ha riempito di più il cuore. Sentirsi chiedere: “ma sono proprio io che sto facendo questo?”, ricevere anche in modo molto semplice feedback di questo tipo, che sono sinonimo di successo, di scoperta di risorse, è importantissimo. Vedere uomini che hanno il coraggio di piangere all’interno del gruppo è potente, perché vuol dire che il gruppo è pronto ad accogliere le lacrime di una persona e che questa si sente a proprio agio nonostante il luogo in cui sono, il carcere, perché in quel contesto laboratoriale si sentono sicuri e protetti. Infatti quando parlo di setting di lavoro io parlo di “bolla di lavoro”, perché la bolla è un’entità morbida, attutisce le cadute impedendo di farsi male, ti separa dal contesto fuori, c’è quindi un’extraquotidianità all’interno, ma non ti isola, perché è trasparente, quindi non ti fa perdere totalmente i contatti con l’esterno. I lavori individuali diventano poi un’altra micro-bolla all’interno della bolla, in un processo osmotico in cui si diventa un tutt’uno, come la famosa macchina attoriale di cui parlava Carmelo Bene. Fare teatroterapia in carcere è un’esperienza che ti arricchisce. La direttrice precedente, durante una riunione, aveva fatto una riflessione. Se guardiamo i disegni che fanno i bambini della loro città, ci sono la Chiesa, la farmacia, la piazza, il parco, la scuola, ma nessuno mai disegna il carcere. C’è quindi, fuori, la tendenza di dimenticare. Ma bisogna stare attenti, perché come dico ai ragazzi l’errore può essere sempre dietro l’angolo, in generale: cadere in un errore, perdere per un attimo la testa, inciampare, può capitare a tutti in un attimo. E così magari stai vivendo con la tua famiglia e da un momento all’altro ti trovi a combattere in una nuova realtà, per una debolezza forse, o perché hai momentaneamente perso la lucidità, quindi è importante non pensare che a noi non potrà mai capitare, perché l’errore può cogliere impreparati chiunque, anche delle apparenti piccolezze possono portare davanti ad un giudice.

Per te cosa significa fare teatro in carcere? Perché ritieni sia importante?

È importante perché permette di vivere una realtà extraquotidiana quando la quotidianità è invece alienante, e per riscoprire delle qualità e delle risorse dentro di sé che magari si ignorano. Solo l’arte teatrale, di quel teatro di verità che non è finzione, ti permette attraverso la mediazione scenica di creare qualcosa di tuo, di scontrarti anche con la tua storia, con il tuo passato, attraverso un’immagine scenica attoriale pulita, che non rinnega ciò che sei stato ma ti permette di specchiarti nell’altro e scoprire parti diverse, nuove, belle. È l’importanza della messa in forma che permette di portare in scena Salvatore Ladiana, Angela Micheli, individui reali e unici che diventano attori di sé stessi, in quel momento lì c’è la terapeuticità del teatro. È importante riappacificarsi con la bellezza, vedersi belli, nel senso di apprezzarsi e dire questa è la bellezza, intesa non in maniera superficiale, di apparenza fisica, parlo di strategia estetica dell’essere corpo scenico, che non significa diventare Roberto Bolle, o Carla Fracci, ma essere se stessi e piacersi. Oltre all’educazione alla sensorialità è importante riscoprire un’educazione alla gratificazione e alla bellezza. Questo ha a che fare anche con l’abbattimento del giudizio e anche con il fatto di prendersi e godersi i propri applausi. Durante i momenti finali del laboratorio infatti prevedo un momento in cui regalarsi reciprocamente due minuti di performance in cui ogni persona mette in scena qualcosa che nasce dal percorso e da quel preciso momento, davanti ai compagni, in un processo di destrutturazione, lo stesso di cui parla Grotowski, perché quando siamo nudi tiriamo fuori la nostra essenza. L’atto creativo nasce, si sviluppa e muore subito dopo, ma quell’istante nasconde tracce di eternità che ti porti dentro tutta la vita, sia quando tornano in cella, sia quando usciranno dal carcere. Non parlo quindi di esibizione ma di condivisione, vado in scena e condivido chi sono, prendendomi gli applausi. Secondo me è questo il segreto e la terapeuticità della teatroterapia.

Quindi è importante per riscoprirsi come esseri umani nella propria essenza?

Assolutamente sì, soprattutto dal momento in cui lì sono numeri, non vengono chiamati per nome.

È cambiata la tua visione del carcere da quando hai intrapreso questa esperienza? Se sì, in che modo?

Io sono stato fortunato perché le mie uniche esperienze in ambito detentivo le ho svolte in una delle migliori strutture a livello europeo. Ci sono altre strutture che sono molto più deprimenti, quindi per la mia esperienza devo affermare che il carcere di Bollate è un posto in cui si cerca davvero di fare un lavoro che possa facilitare il reinserimento dei detenuti a fine pena, come dovrebbe essere. Ogni cella contiene due persone, massimo tre, c’è disponibilità per fare attività esterne, è molto presente il volontariato, ci sono stati tre direttori illuminati che hanno contribuito a cambiare positivamente la struttura. Invece so che sono presenti molte problematiche in generale in Italia rispetto alle condizioni detentive di tante strutture in cui sono presenti alti numeri di suicidi, sovraffollamento e condizioni igieniche non idonee. A Bollate io non ho vissuto un’esperienza così traumatica.

Se ti dico la parola prigione, cosa ti viene in mente? E se ti dico libertà?

Dal momento in cui viviamo in una società civile non si immagina di eliminare la prigione, però credo che alcune pene potrebbero essere scontate in maniera diversa. La prigione è sinonimo di contenimento, di cui non si può fare a meno, ma che può essere trasformato in modalità differenti, perché l’obiettivo è sempre il reinserimento, perché parliamo di esseri umani e spesso quando escono dal carcere la loro vita non è più quella di prima, e ciò rappresenta un fallimento del sistema. Io credo che il contenimento sia importante, lo è anche per quando siamo piccoli, i bambini hanno bisogno di un certo contenimento nella fase evolutiva e di crescita che affrontano, ma il focus principale deve essere sul reinserimento una volta terminata la pena, e tutto sta in ciò che accade dentro la prigione. È necessario investire maggiormente sulle attività svolte all’interno per mirare al recupero, per limitare anche l’alto tasso di recidiva. Per quanto riguarda la libertà il vero obiettivo è vivere la libertà durante la detenzione, perché significa che si spiana così la strada al processo di reinserimento. Questi due termini vanno quindi in coppia e non sono in antitesi secondo me, anche i miei ragazzi si sentono liberi di creare dentro l’ambiente detentivo e hanno assaporato questo aspetto, che è fondamentale per quando escono. Infatti durante i laboratori a me piace molto parlare di evasione, e lavorare con l’extraquotidiano vuol dire evadere, anche la stessa mancanza di giudizio è importante. Sono aspetti che per loro hanno un peso notevole e che all’interno del setting hanno un altro sapore perché sperimentano la libertà di essere, di autoaffermarsi.

Con il teatro si può quindi offrire uno spazio di libertà e di evasione, scardinare e destrutturare anche alcune prigioni mentali?

Assolutamente sì, il segreto è togliere. Sono convinto del concetto grotowskiano del teatro povero, che evita di aggiungere e nel setting si occupa di togliere le sovrastrutture. E nella nudità scenica poi si esprime la creatività, la libertà, l’affermazione, la bellezza. È come una perla impolverata, piena di ragnatele, togli, pulisci, e improvvisamente splende. Ogni attore in un contesto detentivo, in cui magari è presente grigiore, un peso difficile da sostenere, dal momento in cui ripulisce tutto questo attraverso l’arte, la teatroterapia, riesce a splendere.

Cosa è la teatroterapia per te? Ci sono dei momenti che ricordi come esemplificativi dell’efficacia di questo approccio?

La teatroterapia non è solo per chi partecipa al laboratorio, ma è anche per chi conduce. È fonte inesauribile di benessere e di equilibrio, fa stare bene loro ma anche me, è sinergia pura, osmosi tra chi agisce e chi conduce, come in una miscela magica se vogliamo. Gli ultimi incontri del laboratorio sono sempre quelli più intensi, perché in carcere, finora per me è sempre stato un addio e non un arrivederci. Non ho più visto né sentito nessuno. A me piace sempre terminare con degli abbracci, in cui non si verbalizza nulla e si lascia parlare il cuore, in cui si sente il battito dell’altro, la mano sudata… un abbraccio tra uomini schietti, veri, grati, in una forza genuina, un saluto attraverso il gesto più bello di sempre e a volte difficile da realizzare.

C’è qualcosa che ritieni sia necessario cambiare del tuo lavoro? Qualcosa che si potrebbe fare in maniera diversa e che al momento non è stato ancora possibile?

Attualmente non cambierei qualcosa, ho tante gratificazioni anche se siamo tutti umani e si può sbagliare, quindi sarei disposto a ricevere consigli o input diversi. Io non amo però la co-conduzione, specialmente in carcere può creare confusione e penso che il punto di riferimento debba essere unico e costante. Ciò che mi piacerebbe è che si desse più importanza alle varie discipline delle artiterapie, fondate sulla creatività e sul benessere individuale, mentre in Italia si tende a considerare ancora come un’attività semplicemente ludica, quando in realtà c’è sotto un lavoro enorme e potente. Avere più riconoscimento, più spazi, più possibilità significherebbe ampliare le opportunità di lavoro e la sua funzionalità.

Se dovessi descrivere il tuo lavoro con un’immagine, quale useresti?

Mi viene in mente un oceano, un panorama dove intravvedi l’orizzonte ma sai che non lo toccherai mai. Puoi nuotare, volare e lo vedi sempre. Quella sorta di inarrivabile che non è impossibile da raggiungere e che ti dà la voglia di non fermarsi mai, per raggiungere qualcosa che puoi toccare ma mai prendere del tutto e che non deve demoralizzare, perché è bello e importante puntare alla bellezza, nel senso di strategia estetica e nell’ottica di una crescita continua, per sé e per gli altri.